Cassazione: l'outing diventa reato


Con la sentenza n. 30369 del 24 luglio 2012, la quinta sezione penale della Cassazione ha stabilito che chi diffonde l'omosessualità di un altro rischia una condanna per diffamazione e violazione della privacy.
Il tutto ha avuto inizio quando in un articolo di un quotidiano locale si è parlato in forma anonima di un uomo che si era visto addebitare la separazione in seguito al suo tradimento con un collega di lavoro. Il protagonista della vicenda si è sentito leso nella reputazione ed ha denunciato per per omesso controllo il direttore del periodico.
Il 2 maggio scorso il gup di Ancona aveva prosciolto l'imputato «perché il fatto non sussiste», ipotizzando al massimo la possibile lesione del diritto alla riservatezza, dato che il cognome non era stato scritto per esteso e che nell'articolo si faceva genericamente riferimento ad un "marito marchigiano".
Ora, però, la Cassazione ha ribaltato quella decisione, stabilendo che l'omosessualità è «una situazione di fatto riconducibile alle scelte di vita privata» di una persona e, quindi, «non ha alcun rilievo sociale» e, conseguentemente, non può rientrare neppure nel diritto di cronaca.
Riguardo all'anonimato, invece, la Suprema Corte ha precisato che «è sufficiente che l'offeso possa venire individuato per esclusione in via deduttiva, tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto l'offeso venga individuato da un ristretto numero di persone».
Ne consegue, così, che è condannabile per diffamazione chiunque pubblichi un articolo nel quale si faccia riferimento alla sessualità dei protagonisti senza una previa autorizzazione da parte di quest'ultimi. Faranno comunque eccezione tutti quei caso in cui l'outing possa rivestire carattere di "pubblico interesse".
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