Intervista ai Pellicans


Dopo esserci occupati del loro secondo album, li abbiamo intervistati per conoscerli meglio. Loro sono i Pellicans, una band del pinerolese che propone un queer-reggae influenzato dalle musicalità anni '70/'80 e contaminato da sonorità che spaziano dal rock all'elettronica.

Ci raccontate qualcosa di voi e della vostra storia?
Non esiste una vera e propria data a cui far risalire la nascita del gruppo, ad ogni modo si può dire che alcuni musicisti della Val Pellice decidono di incontrarsi per suonare reggae agli inizi del 2000, anche sull'onda del grande interesse per questa musica dimostrato nel territorio – si pensi alla realtà degli Africa Unite. Come per tutti i gruppi, in particolare non professionisti si registrano grandi cambiamenti di formazione e di conseguenza anche dello stile che via via si va strutturando. Sono apparizioni estemporanee e anche le scalette proposte riflettono i mutamenti all'interno del gruppo. Sicuramente con l'entrata dell'attuale cantante (Roberto Pretto) si inizia a ricerca una maggior coerenza e ad investire su un repertorio originale, alternando sia i testi in italiano sia in inglese. Nel 2005 i Pellicans sono scossi da un lutto, in quanto Andrea, chitarrista nonché anima del gruppo, si toglie la vita. È chiaramente un momento molto difficile e sarà abbracciando gli strumenti e continuando il percorso intrapreso il modo per affrontare la perdita dell'amato amico e collega. Vi è quindi un nuovo inserimento nell'organico e si decide di rendere il progetto dei Pellicans più visibile, autoproducendo un disco. Saranno anni molto intensi, quelli tra il 2006 e il 2010, che vedono il gruppo impegnato su due fronti, i live e le registrazioni in studio. Grazie al supporto di Ruggero Catania (chitarrista degli Africa Unite), si da vita al primo disco intitolato "Lunapark Underground", che vede anche la collaborazione di molti amici nonché artisti quali Livia Siciliano per quanto riguarda le foto del disco e delle locandine, Kai Samuel Paone che si è occupato oltre ad alcune composizioni anche agli arrangiamenti e a Luciano Kovacs, caro amico italianissimo ma residente a NYC quale scrittore dei testi. Collaborazioni di cui il gruppo si è avvalso anche per il secondo disco "Dancing Boy".

È da poco uscito il vostro nuovo album. Che cosa lo caratterizza e perché vale la pena ascoltarlo?
Il 25 Marzo di quest'anno è uscito "Dancing Boy". Rispetto al precedente "LunaPark Underground" c'è stato un lavoro di affinamento delle composizioni nonché dei cambiamenti rispetto alle sonorità proposte. "Dancing Boy" è di fatto la continuazione del precedente, ma è migliore da un punto di vista rappresentativo in quanto è più fedele a quello che suoniamo nei live. Il nostro gruppo è abbastanza anomalo nel panorama reggae, in quanto non sono presenti fiati, né tanto meno le tastiere, molto care ad una certa parte di questa cultura. Diciamo che potremmo essere più vicini alle sonorità del reggae UK che non a quello Jamaicano.

In più occasioni avete sostenuto di fare raggay. Cosa intendete con quel termine?
Ovviamente ci piaceva il gioco di parole, ed è forse un modo più diretto per dichiarare i nostri intenti, non solo musicali. In realtà la parola raggay ha altre accezioni per quanto sia anche utilizzata come dispregiativo. Nel nostro caso si vuole invece dare un'accezione positiva al termine e per certi versi rivoluzionaria, visti i molti atteggiamenti omofobici e maschilisti che hanno caratterizzato nel passato l'ambiente reggae e non solo.

Perché i testi della musica reggae sono così spesso ricchi di frasi e concetti omofobici?
È difficile rispondere senza tener conto delle molte realtà e quindi delle culture che le musiche rappresentano. Ci possono essere molti motivi, in parte religiosi – si pensi al rastafarianesimo, in parte sociali, per cui è ancora radicata la visione dell'omosessuale come pervertito e come anormale. Di contro c'è anche una forma di violenza verbale che è espressione di una certa cultura gruppale. È infatti storia di tutti i giorni che in ogni comunità o gruppo molto connotato al suo interno, sia prassi consolidata quella di prendere di mira gli emarginati, quelli che sono "fuori" dal gruppo, i deviati, i nemici.

Tra le tante possibili battaglie sociali, perché avete scelto proprio la lotta all'omofobia?
In realtà non c'è stata una scelta "a tavolino". È capitato naturalmente, dovuto al fatto che all'interno del gruppo vi sono gay dichiarati e che da anni stanno portando avanti questo percorso.

Con la musica si può fare politica (nel senso più ampio del termine)?
Potremmo ampliare la domanda osservando che con le arti si può fare politica. Dipende dalla sensibilità di ognuno, da quello che significa per l'artista. È però molto importante per noi sottolineare il senso positivo del termine "politica", che sta a sottintendere attenzione e promozione della socialità, della condivisione, dell'aiuto alle persone discriminate, del dar voce agli oppressi, della gioia dell'incontro. La musica è sempre stata un potente strumento di lotta. Ma questa attenzione che poniamo vogliamo venga intesa come propensione politica e non partitica.

Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Il nostro cantante (che è anche il compositore) ha già registrato i provini del terzo disco, e quindi ci organizzeremo per la registrazione del prossimo lavoro probabilmente a fine anno. Nel frattempo ci stiamo dedicando alla promozione di quello appena uscito, a partire dalla fine di aprile torneremo finalmente a suonare dopo più di un anno di lontananza dai palchi.

Per maggiori informazioni sul gruppo (o per ascoltare la loro musica) è possibile visitare il sito ufficiale, lo spazio dedicato al nuovo album o il profilo pubblicato dalla casa discografica.
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