Per la prima volta in Italia, un ragazzo racconta la sua esperienza con l'affido ad una coppia gay


Politici e gruppi religiosi hanno lanciato incredibili anatemi contro le adozioni da parte di coppie gay, sostenendo che a muoverli non fosse il pregiudizio ma il desiderio di «difendere» i minori. Curiosamente, però, nel dibattito non si è mai fatta rientrare l'opinione di chi ha un maggior diritto di parlare, ossia chi ha sperimentato sulla propria pelle quell'esperienza.
Ed è dalle pagine del Corriere della Sera che ci giunge la storia di Marco. Ad undici anni la madre lo portò in comunità a causa di una situazione familiare divenuta ormai insostenibile. Inizialmente la donna visse con lui ed i suoi fratelli, ma dopo un anno se ne andò. I fratelli minori hanno tutti trovato una nuova famiglia adottiva ma, data l'età, per lui c'erano poche speranze. Quindici mesi fa, quando era «ormai convinto che non sarebbe più stato possibile», una famiglia ha deciso di prendersene carico. Era una famiglia formata da due uomini: Massimo ed Alessandro, rispettivamente di 40 e 47 anni.
Marco oggi frequenta il suo ultimo anno all'alberghiero. «Se fossi rimasto a casa probabilmente non sarei mai arrivato al diploma -racconta- Adesso lo so, ma è stato difficile». L'aver raggiunto la maggiore età gli anche consentito di poter raccontare pubblicamente la sua storia.
«Io non conoscevo niente di questo mondo e all'inizio non ci volevo andare», dice. «Alla casa famiglia me lo hanno detto senza mezzi termini: "Rassegnati, per te non ci sono speranze, nessuno ti prenderà più". Ma hanno aggiunto che invece c'era questa coppia di uomini... Io ho capito subito che erano gay e ho detto di no. Poi però ho pensato: conosciamoli. Se avessi visto che anche solo uno dei due era effemminato, non ci sarei mai andato. Ho scoperto che i gay non sono come in tv. Cosa fanno la notte è una questione privata: di giorno sono persone normali».

Marco ha anche raccontato delle sue difficoltà dinnanzi all'allontanamento da parte della madre: «Quando se ne è andata è stato difficile. Da piccolo avevo nove in condotta, ma due e tre nelle altre materie. Lì ho capito che l'unica persona a cui potevo aggrapparmi era me stesso. Ho pensato: quando esco da qui devo lavorare, mi serve il diploma. E mi sono messo a studiare».
Ha cambiato tre comunità: «Ogni volta che arrivavo in posto nuovo facevo fatica a dormire», dice. E nonostante la convivenza con altri non fosse sempre semplice, lui ha sempre fatto di tutto per non creare problemi: «Non volevo che se mi comportavo male mi portassero lontano dai miei fratelli».
Questa è stata la sua vita sino al 17 giugno dell'anno scorso. «Abbiamo iniziato con un affido parziale -raccontano Massimo e Alessandro- stava con noi qualche ora al giorno, poi tornava in comunità». «Il primo giorno mi hanno fatto vedere l'appartamento e la camera, poi mi sono addormentato sul divano», ricorda Marco.
Dopo le verifiche compiute dai servizi sociali, l'affido è divenuto a tempo pieno da dicembre: «La scelta l'ha presa anche mia mamma -precisa Marco- li ha conosciuti e ha detto: mi piacciono, sono d'accordo».
L'articolo del Corriere sottolinea anche come i loro racconti della quotidianità siano quelli di una famiglia qualunque. «Con Ale mi piace studiare. Soprattutto come mi spiega il francese. Sui film invece abbiamo gusti diversi», dice Marco. «Ma lui guarda solo quella robaccia d'azione», si lamenta Massimo. «Io voglio le cose stirate, mentre loro non stirano. Allora ci penso io, tanto mi piace», rincara Marco. «È stata un'invasione: non eravamo abituati ad avere un adolescente in casa, il rumore sano della quotidianità. Io sono figlio unico, cresciuto tra i libri», ironizza Alessandro.
Spesso per casa ci sono anche gli amici del ragazzo: «A nessuno importa che siano due maschi. L'importante è che siano persone per bene», rassicura.

A settembre c'è stata una nuova udienza del giudice e Marco ha scelto di restare per altri due anni con loro nonostante sia maggiorenne: «Stando con loro ho molte più possibilità. E questa per me è una forma di famiglia, loro rimarranno sempre un punto di riferimento».
Massimo però precisa di sapere bene che quella non è un'adozione: «Ce lo hanno anche chiesto come ci si sente da neo-papà. Ma noi non siamo i suoi padri, siamo persone che hanno fatto un percorso di affido, che è ben diverso dall'adozione. Il padre e la madre Marco ce l'ha già. E li vede almeno una volta a settimana, come i fratelli». «Gli diciamo sempre che quello che ha fatto sua mamma lo ha fatto per garantirgli qualcosa di meglio. Io credo che ci sia riuscita», aggiungono.
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