L'incredibile coming out di Dalton Maldonado


Dalton Maldonado è un ragazzo non ancora ventenne che gioca nella squadra di basket della Betsy Layne High School, nel Kentucky (Stati Uniti). A raccontare il suo coming out è Outsports.com, il quale ha provveduto anche a verificare l'incredibile storia.
Tutto ha avuto inizio sul campo di gioco, quando un avversario gli ha detto: «Hey numero 3, ho sentito che sei frocio». Dalton ha reagito d'impulso a quella provocazione rispondendogli: «Si bello, posso avere il tuo numero?». Poi il panico. Solo un paio di compagni di squadra sapevano della sua omosessualità e quelle parole equivalevano ad un coming out bello e buono. La sua mente è dtata invasa da mille pensieri e dalla paura verso tutti quei pregiudizi volti a sostenere che un gay non possa essere un buon atleta. Rifiugiatosi negli spogliatoi, viene subito raggiunto dai compagni che gli chiedono che cosa non andasse. Dopo l'iniziale tentativo di chiudersi in sé stesso, risponde: «Sono gay, sono gay! Ok?».
«Dalton piangeva e tremava in un modo incomprensibile per chi non fosse lì -racconta un suo compagno di squadra- Tremava nel senso fisico del termine. Ho provato una sensazione orribile».
Se i compagni decidono di fare quadro attorno a lui, una brutta sorpresa lo attende all'esterno: i giocatori della squadra avversaria assaltano l'autobus e gli intimano di scendere. Viene inseguito sino all'albergo e la polizia dovettr intervenire per mettere in sicurezza il piano della squadra. Viene persino messo in dubbio il proseguo del torneo (mancavano ancora due partite) ma alla fine si decide di proseguire grazie al supporto della maggior parte dei suoi compagni.
È lo stesso Dalton a spiegare: «Se fossimo andati via avremmo dato l’impressione che mi vergognavo di ciò che sono. E io non mi vergogno di quello che sono. Mi reggo benissimo da solo e ho anche i miei compagni e il mio allenatore dalla mia parte».
Durante le partite successive non sono mancati cori omogobi, ma Dalton dice che non gli ha dato peso ora che non si sentiva più solo. Anzi, «era molto più facile giocare perchè non avevo più nulla da nascondere e i miei genitori e la mia squadra già sapevano. Ho la sensazione che tutto questo possa aiutare altri atleti. Durante il mio primo anno non avrei mai pensato di dirlo, ma adesso lo sto dicendo al mondo».
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