Prima di Regeni, un ragazzo gay italiano è stato stato incarcerato senza motivo in Egitto


Sette mesi prima del caso di Giulio Regeni, lo studente italiano trovato morto al Cairo, un altro italiano è stato stato incarcerato senza motivo in Egitto.
Il protagonista della vicenda è un trentenne che dal 2011 lavorava nel Paese del presidente Al Sisi. Mentre stava rientrando a casa, è stato fermato da due agenti in borghese che lo hanno caricato su una camionetta per portarlo al Mogamma, il palazzo governativo di Piazza Tahrir. Dopo l'interrogatorio, venne portato alla stazione di polizia di Doqqi e chiuso in una cella di cinque metri per cinque insieme ad altre quaranta persone. Rimarrà in carcere per 27 lunghi giorni, senza sapere i motivi dell'arresto e senza possibilità di comunicare con l'esterno.

«Durante l’interrogatorio tirarono fuori dalla mia borsa il telefono e il portafoglio. Poi mi mostrarono un secondo telefono, chiedendo se fosse mio. Negai, anche se insistevano: scrissero a mano un verbale e mi chiesero di firmarlo. Rifiutai», ha raccontato al Corriere della Sera. «Chiesi più volte di parlare con l’ambasciata italiana, un diritto che mi spettava e che mi è stato negato. Sono stato fermato il 6 luglio e il 27 ho visto per la prima volta il giudice, che mi ha assolto per assenza di prove. Sono stato scarcerato il 2 agosto».
«Ancora non so perché mi hanno arrestato: forse perché ero straniero, forse per il fatto di essere gay, e per questo obiettivo del governo egiziano. Quando i miei compagni di cella hanno capito che ero italiano mi hanno presentato un ragazzo italo-egiziano, che parlava la mia lingua e cercò di tranquillizzarmi. Mi ha spiegato le regole del carcere -ad esempio che sono gli anziani a decidere chi può dormire, mangiare o andare in bagno, un buco in un angolo della cella- ed è riuscito a chiamare suo padre con un telefono nascosto, chiedendogli di avvertire l’ambasciata italiana». La mattina successiva, il console italiano Luca Fava si presentò alla stazione e chiese che il ragazzo fosse messo sotto protezione dalla Guardia nazionale. A spiegare il motivo della richiesta è lo stesso giovane, che racconta: «In questo modo non potevano toccarmi. In più occasioni mi hanno fatto assistere alle torture riservate ai detenuti: frustate, calci, pugni, coltelli… Un trattamento molto simile a quello che, da quanto leggo, ha ricevuto Giulio Regeni. Solo che lui ha subito una forma più acuta. Nella mia vicenda si sono inventati che organizzavo incontri sessuali a pagamento».
Dopo tre udienze cancellate senza alcun motivo, il giudice ne ha ordinato la scarcerazione per assenza di prove. Eppure neppure allora il 31enne è stato libero di andarsene: la polizia l'ha trattenuto ancora in attesa del rilascio.
Oggi il ragazzo è al sicuro in Italia, ma per lui sarà difficile dimenticare l'accaduto: «Cerco di andare avanti con la mia vita e provo a non pensare a quello che è successo -dice- anche se sono 27 giorni impossibili da dimenticare, con cui dovrò imparare a convivere». Dopo i primi periodi difficili, «sono riuscito a trovare il coraggio di parlare di quello che mi è successo. Lo faccio per quelli che erano in cella con me e che, prima che uscissi, mi hanno chiesto di far conoscere quello che sta succedendo in Egitto e di far uscire la loro voce da quelle quattro mura. Il mio non è stato un caso isolato: ne avvengono a decine ogni giorno. Io sono fortunato, perché sono tornato a casa. Sappiamo che tra Egitto e Italia ci sono parecchi interessi economici che guidano le scelte politiche: spero che non prevalgano sul diritto alla verità, per Giulio e per tutti gli altri».
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