L'integralismo cattolico: «Le famiglie gay devono essere considerate come coppie di amici, senza accesso alla sfera giuridica»


Una diciottenne che si spupazza un novantenne al solo scopo ereditare i suoi lo sta facendo per il bene comune e secondo i dettami di Santa Romana Chiesa. L'importante infatti non è il fine ma il buco: l'uomo deve infilarli in una vagina e la donna deve aprire le gambe a comando. Questo è quanto pare sostenere l'integralismo cattolico, intenzionato a distruggere il concetto stesso di matrimonio dinnanzi alla sua frenesia nel cercare una giustificare "religiosa" che possa legittimare il loro odio verso gay e lesbiche.
Nel secondo capitolo di quel progetto che vedrà la pubblicazione di una serie di articoli di indottrinamento che verranno proposti contemporaneamente su tutti i siti integralisti, il movimento anti-gay cerca di sostenere che le unioni gay non meritino il medesimo rispetto delle loro unioni perché non orientati alla procreazione. Ovviamente non sono orientati alla procreazione neppure i matrimoni fra novantenni e ventenni, i matrimoni fra persone che non vogliono o non possono avere figli po fra giovani toy boy e donne in menopausa. Ma quest'evidenza non pare interessare a chi ha deciso di far passare l'idea che lo scopo del matrimonio sia solo la procreazione, nonostante la legge non preveda nulla di simile. Scrivono così:

È compito della ragione fare ordine, ordinare le cose in una disposizione armonica. Un ordine è tale in quanto è disposizione verso un fine. Il fine della legge è il bene comune. In quanto è compito della legge disporre per il bene comune, soltanto delle realtà di rilevanza pubblica possono diventare oggetto di una legislazione umana. Per questa ragione, l’amicizia, essendo cosa privata, non cade nella sfera giuridica (cfr. F. D’Agostino, Una filosofia della famiglia, 147). Il legislatore umano però si interessa giustamente nel matrimonio come unione stabile tra un uomo e una donna in quanto istituzione di alta rilevanza pubblica. Tale rilevanza deriva dal fatto che un’unione siffatta è idonea a trasmettere sia la vita, sia la cultura ai nuovi membri della società.

Tale premessa (altamente lesiva della dignità delle persone) viene usata come pretesto per asserire:

La legislazione che conferisce alle unioni tra persone dello stesso sesso uno status giuridico eguale o analogo al matrimonio è estremamente preoccupante anche per un’altra ragione. Come abbiamo notato sopra, una tale legislazione si insinua nella sfera privata degli affetti senza riferimento al bene comune. Se il bene comune non serve più come fondamento della legislazione, occorre un sostituto. Il posto che il bene comune occupa nella definizione della legge proposta da S. Tommaso viene ora occupato dai desideri. Ebbene, se i diritti si fondano sui desideri, lo Stato si arroga un potere arbitrario e inappellabile. I desideri non richiedono un riconoscimento: a essi si risponde o non si risponde. Un diritto basato sul desiderio non è riconosciuto, bensì concesso. Ma un legislatore creatore dei diritti può anche toglierli. In quanto contano i desideri e non le ragioni, non è possibile ragionare contro uno Stato siffatto. Non vi è istanza comune (ad esempio, la realtà del bene comune) alla quale fare appello. C’è solo il legislatore che concede i diritti graziosamente quando gli piace e li toglie spudoratamente quando gli piace.

Insomma, il bene comune sarebbe rappresentato dall'eterosessualità e Dio e la natura sarebbero in errore ad aver dato origine a quell'omosessualità che non piace ai cattolici, soprattutto quando si tratta di garantire pari diritti nonostante il cattolico medio agoni ad intascarsi i soldi versati da quei gay che vorrebbero veder morire di fame mentre si godono i soldi sottratti alla loro reversibilità.
Si passa dunque a sostenere che la parità di diritti sia un affronto agli eterosessuali, i quali avrebbero diritto a maggiori diritti sulla base di un diritto di nascita (un po' come i nazisti sostenevano che la razza ariana dovesse essere fonte di privilegi). Scrivono così:

Ma in tal caso il legislatore non solo promulga una legge senza ragione di legge, ma commette anche un’ingiustizia effettiva. Talvolta si sente l’obiezione: “Il mio matrimonio (gay) non nuoce al tuo matrimonio (tra uomo e donna)”. Ma nuoce comunque a un istituto giuridico al servizio del bene comune l’essere messo sullo stesso livello di un’unione strettamente privata. Chiamando le unioni di persone dello stesso sesso con il nome “matrimonio”, oppure dando loro altre forme analoghe di riconoscimento pubblico, il legislatore dichiara implicitamente che il matrimonio è un affare privato. Sta qui l’ingiustizia di una tale legislazione. Pretendendo una rilevanza pubblica per le cose private, si rendono private le cose di rilevanza pubblica. Chi pertanto si oppone a una tale legislazione si oppone alla privatizzazione del matrimonio, ribadendo la rilevanza pubblica del matrimonio al servizio del bene comune. Le unioni tra persone dello stesso sesso, non avendo una tale rilevanza pubblica e perciò essendo cosa molto diversa dal matrimonio, non devono essere chiamate con lo stesso nome né ricevere uno status giuridico analogo. Altrimenti si tratta di un caso eclatante di discriminazione contro le persone sposate, in quanto si dà discriminazione non soltanto quando si trattano in modo differente le realtà eguali, ma anche quando si trattano in modo eguale le realtà differenti.

Ma dinnanzi a tutto questo discorso lungo e noioso una domanda vien spontanea: che senso ha proporre ragionamenti basati su un assunto tanto labile quanto falso come il sostenere che una famiglia gay debba essere ritenuta una coppia di amici?
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