L'autogol di Salvini: i giudici sanciscono che non è diffamazione definire «razzista» la Lega

Non è diffamazione dichiarare che «la Lega è un partito razzista». È quanto stabilito dal gip di Milano, Maria Vicidomini, nel decreto con cui ha archiviato una querela intentata da Matteo Salvini contro l'ex ministra dell'Integrazione Pd, Cécile Kashetu Kyenge.
Per via indiretta, i giudici hanno così ammesso indirettamente il contenuto razzista presente nelle affermazioni degli esponenti leghisti contro Kyenge, peraltro ritrovatasi costretta a vivere sotto scorta come conseguenza della loro campagna denigratoria.
Il 13 luglio 2013 fu Roberto Calderoli, attuale vicepresidente del Senato, a dichiara che: «Ha le sembianze di un orango». L'offesa venne archiviata da Palazzo Madama, con i senatori pronti a spergiurare che quell'offesa «non aveva finalità di discriminazione razziale» (anche se rimane aperto il procedimento penale, dato che la Corte costituzionale dovrà decidere se quell'offesa deve godere o meno dell'immunità parlamentare invocata dallo stesso senatore leghista). Fu poi Salvini a rincarerei la dose e a dichiarare che «L'onorevole Kyenge è utile ai cittadini italiani, simpatica, educata e gradevole come una zanzara in camera da letto». Aperto il vaso di Pandora, il susseguirsi di insulti leghisti fece sì che il ministro dichiarasse che «la Lega è un partito razzista». Salvini la denunciò.
Ora i giudici osservano che la donna «si limitò a rimarcare la necessità di sanzioni per i partiti o gruppi politici che si facessero portavoce di discorsi a contenuto razzista chiarendo espressamente che intendeva riferirsi non solo alla Lega Nord ma a tutti i i partiti». Tra questi fece riferimento anche a Forza Nuova e Alba Dorata. «Si trattava dunque di affermazioni che nel loro complesso inerivano alla problematica dello stato di attuazione della legge-Mancino», dicono.
Dal canto suo la Kyenge ha poi commentato: «Per aver detto che 'la Lega è un partito razzista' Salvini mi ha querelato chiedendo che venissi condannata fino ad un anno di carcere. La pretesa dietro quella querela di Salvini era di zittirmi, la pretesa è che non si possa dire la verità, ossia che le parole d'odio che lui e molti membri del suo partito pronunciano ogni giorno non possano essere chiamate con il loro nome: razzismo, istigazione all’odio razziale [...] Da un lato Salvini e la Lega fanno della propaganda di matrice xenofoba il proprio principale strumento di conquista del consenso politico, fomentando sistematicamente l'odio verso chi viene da un altro Paese. E avvelenando la nostra società, dall'altro pretenderebbero di non pagare dazio, di nascondere la mano, con stupefacente doppiezza».