Un reportage dell’Espresso racconta le torture subite day gay ceceni


«Alle botte coi tubi di gomma si resiste. Ti mordi le mani fino a sanguinare ma ce la puoi fare. L’elettricità è un’altra cosa. Vedi che iniziano a girare la manovella, e sai che arriverà, e quando arriva il tuo corpo inizia a tremare, sai cos’è perché ci sei già passato, ma non capisci più cosa succede, urli di dolore che ti scoppia la gola, ti senti cadere, e poi ricomincia».
Questa è la testimonianza di un sopravvissuto ai campi di concentramento ceceni per gay raccolta nello scioccante reportage pubblicato da L'Espresso.
Intollerabile è anche il silenzio complice della comunità internazionale. E se qualcuno ha abbozzato una timida protesta, i fatti ci confermano come non sia abbastanza: «Abbiamo paura a rimanere qui perche “loro” possono venire in qualsiasi momento, e portarci via per ammazzarci da qualche parte. Nessuno troverebbe mai i cadaveri. Loro potrebbero anche infiltrare qualcuno tra noi, per sapere chi siamo e dove siamo: potrebbero mandare un “provokator”. Abbiamo richiesto i visti a diversi Paesi. Funzionari dell’ambasciata tedesca sono venuti qui nella safe house, e hanno parlato con le vittime. Ma per ora non abbiamo saputo niente, né da loro né da altri».
Tutto lascia pensare ad una comunità a cui è stato tolto il diritto di vivere e a cui è stato fatto comprendere che ogni contatto umano potrebbe essere per loro fatale: «Sai com’è, quando non sei il tipo che prende rischi e non sei abituato a queste cose, ma eccoti in macchina con una persona che hai trovato su Vkontakte e lui ti sta portando alla sua dacia? Sai, quando hai un po’ di timore ma anche tante aspettative? Bene, nella foresta tra i due villaggi lui svolta per una strada sterrata in mezzo agli alberi. “Ma dove vai?”, gli dico. Lui guarda avanti e non risponde. Come se non ci fossi. Allora mi spavento. La macchina si ferma in una radura e ci sono tre militari in divisa nera. Mi tirano giù dal sedile, e arriva il primo calcio. Mi pestano per dieci minuti, forse 15. Mi urlano che sono un pederasta schifoso, e che gente come me in Cecenia non deve esistere. Uno riprende tutto col telefonino. Poi resto raggomitolato nel fango e spero solo che non arrivino altre botte. Loro guardano le foto e i contatti nel mio cellulare. Mi gridano in faccia che devo dargli 200mila rubli sennò mettono tutta la mia storia e le mie foto su internet. Io ho qualcosa di rotto nella bocca, non posso parlare». «Ho pagato, certo. Ho venduto lo smartphone, il computer e altre cose che avevo, e per un po’ non ho speso niente dello stipendio. Ho messo insieme i soldi e ho pagato. No, non ho parlato con nessuno di cos’era successo. A casa ho detto che avevo fatto a botte. Appena sono uscito dall’ospedale, ho cancellato numero di telefono e account sui social. Fine di ogni contatto. All’ospedale poi ho dovuto tornarci per operarmi per le fratture alle ossa del viso. Mi hanno messo una protesi, ma non si vede. Il problema non è fisico. È che quel giorno mi hanno fatto a pezzi dentro».
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