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Ecuador. Viaggio nelle cliniche che "curano" l'omosessualità, tra stupri, violenze e musica sacra

Paola Paredes è una fotografa di Quito che, sotto copertura, è entrata in una delle duecento strutture ecuadoregne che promettono di poter "curare" l'omosessualità dietro il pagamento di rette mensili tra i 500 e i 900 euro. Si tratta di "cliniche" in cui l'orientamento sessuale viene trattato alla stregua di alcolismo e tossicodipendenza e in cui i "pazienti" risultano vittime di costanti abusi e violenze. In alcuni casi c'è chi è vittima anche di veri e propri stupri collettivi.
Paredes ha documentato ciò che accadeva, nascondendo un microfono nel reggiseno. La sua testimonianza è diventato un progetto fotografico che racconta e denuncia quella realtà.

Alle 6 del mattino le donne devono mettersi in fila per entrare in bagno. Non c'è possibilità di sgarrare: ogni ribellione o ogni disubbidienza viene tassativamente punita. Possono restare sole per un massimo di sette minuti, per la doccia. Poi devono pulire tutto, lasciando i bagni anche con l'uso dello spazzolino da denti. Se i guardiani non sono soddisfatti, le infilano la mano nel wc e la tengono lì finché non è tutto pulito.
Si passa poi all'ascolto di musica religiosa e a terapie per il loro «disordine», ossia quel termine odioso con cui i documenti vaticani etichettano l'omosessualità in un complice supporto ad inumane violenze perpretrate nel nome di Dio. Tante donne raccontano anche di aver subito violenze sessuali da parte delle guardie, come «parte del programma di rieducazione». I terapisti, quasi tutti uomini, impongono loro di indossare gonne corte, di truccarsi e camminare con le scarpe con i tacchi alti come «vere donne».
Alle donne viene tassativamente vietato di poter parlare tra loro. Se vengono scoperte a farlo, vengono portate a forza in una stanza, vengono obbligate ad ascoltare musica religiosa mentre devono restare stare immobili in ginocchio, a braccia aperte, con alcuni libri in mano.

Tra le altre punizioni, c'è quella di essere obbligate a ingurgitare un liquido di cui non si conosce l'esatta composizione. Si presume possa trattarsi di cloro, caffè e acqua di scarico del wc. Punizioni e percosse sono una costante, usate anche per punire chi non soddisfa il personale della struttura nel dedicarsi alla pulizia di uffici, corridoi, cucine o bagni. Chi è stato in queste cliniche racconta di essere stato legato con cavi e corde, sedato, o lasciato immerso in acqua ghiacciata fino a perdere i sensi.
Tra un pasto e l'altro, il frigorifero resta chiuso con un lucchetto. Solo nel fine settimana alle donne è concesso guardare un film in televisione e mangiare biscotti e un pezzo di cioccolato.
Ogni sera alle «pazienti» si è costretti ad assumere alcune pillole. Non si sa di che cosa si tratti. Le testimoni raccontano di come alcune causino insonnia, altre una temporanea perdita della memoria. Una ragazza racconta di aver subito violenza dopo averne assunte alcune.
Chi si rifiuta di mangiare o chi si ribella alle «regole» viene punito. Percosse e violenze avvengono sia di notte che di giorno. Sono una costante. Per coprire le urla delle donne che subiscono le «punizioni», i guardiani mettono musica religiosa a tutto volume. Anche di notte.
C'è chi tenta di scappare. Una giovane donna ha ingerito un’intera boccetta di shampoo nel tentativo di farsi ricoverare in ospedale.

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