Si può essere gay e musulmani?


Si può essere gay e musulmani?. È questa la domanda a cui Wajahat Abbas Kazmi ha tentato di dare risposta in un'intervista pubblicata da Pressenza.
Quello di Wajahat non è un nome nuovo per i nostri lettori: è lui il regista che cercherà di realizzare il film “Allah loves equality” con l'obiettivo di dare voce alle minoranze sessuali nel sud del mondo. Un progetto che ha visto la raccolta 1.200 euro in un primo crowdfunding e che ora si propone di raccoglierne 6.000 entro la fine di luglio (qui è possibile trovare tutte le informazioni per contribuire). Ed è sempre lui ad aver sfilato a numerosi pride con l'ormai celebre cartello che riporta il suo slogan.

Oggi 31enne, Wajahat si è trasferito in Italia a 14 anni. Spiega che «la mia è una famiglia di classe media, sciita, piuttosto religiosa (mio padre era presidente della moschea sciita) e io mi sono adattato a questa atmosfera, anche se spesso c’erano piccole battaglie riguardo alle scelte di autonomia fatte da me e da mia sorella». Ed ovviamente tutto ciò ha portato a dover vivere con difficoltà un orientamento sessuale spesso condannato dai dogmi religiosi: «Anche se ero già sicuro della mia identità sessuale, non avevo modelli, né esempi di coppie gay da seguire e così ho accettato le pressioni familiari perché mi fidanzassi con una cugina. Mi sembrava una scelta obbligata, a cui non potevo sottrarmi, ma che ho cercato comunque di rimandare il più possibile». La sua via di fuga è stato il mondo dello spettacolo, capace di dare un nome a ciò che lui sentiva dentro di sé: «Ho fatto dei corsi e nel 2009 sono tornato in Pakistan, dove ho fatto l’assistente alla regia e ho scoperto il mondo LGBT. Ho conosciuto coppie gay e tutte quella realtà di cui in Italia ignoravo l’esistenza. La mia famiglia non approvava il mondo del cinema e della televisione, ma pensava che quella passione mi sarebbe passata in fretta, che fosse solo una fase».
La realizzazione di un film sulle minoranze sciite e cristiane perseguitate dai fondamentalisti lo ha costretto a far ritorno in Italia a causa della censura e delle minacce subite. «A quel punto ho capito che le cose che mi appassionavano non c’entravano nulla con un matrimonio combinato e ho fatto coming out con i miei genitori (al telefono, visto che erano tornati in Pakistan), spiegando che le donne non mi interessavano, che non volevo sposarmi e avevo un’altra vita. Per loro l’omosessualità era una malattia da curare e anche se il fidanzamento con mia cugina è finito hanno continuato a cercarmi altre donne».
Divenuto attivista di Amnesty International, lo scorso hanno, nel pieno delle manifestazioni e delle polemiche sulla legge per le unioni civili, ha deciso di partecipare ad un presidio organizzato a Milano con il cartello "Allah loves Equality". E da lì è nato tutto. «Sotto sotto avevo un po’ paura, non di quello che stavo facendo ma di prendere le botte da qualcuno, soprattutto da qualche fratello musulmano. Pensavo che la cosa sarebbe finita con qualche foto su Facebook e invece oltre a critiche, prese in giro e insulti mi sono arrivati molti apprezzamenti e richieste di interviste. Ho portato quel cartello anche al Gay Pride, da solo, ma non ho mollato e quest’anno eravamo in dieci».
Racconta così che «la cosa più bella è vedere i musulmani che discutono del tema omosessualità e Islam: magari la maggioranza è ancora critica, ma l’importante è che non sia più un tabù, che si sia iniziato a parlarne, che i giovani di seconda generazione possano avere una scelta, un’alternativa, cosa che alla loro età io non ho avuto».

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