Solo un lavoratore su quattro fa coming out


Solo una persona lgbt su quattro fa coming out sul posto di lavoro. È quanto emerge da un workshop organizzato a Milano da ELAN, società di consulenza per la crescita e la valorizzazione del capitale umano, sulla valorizzazione delle persone lgbt nelle aziende.
Le ragioni per cui solo un dipendente lgbt su quattro decide di dichiararsi sono diverse: la paura di compromettere i rapporti con i colleghi, di ostacolare un avanzamento di carriera e, addirittura, il timore di essere licenziati. Come diretta conseguenza, la preoccupazione di essere scoperti e discriminati può avere un impatto significativo sulla qualità delle prestazioni lavorative.
Secondo una survey condotta da Utilia sulle aziende presenti al convegno, solo nel 46% di esse erano già previste attività legate all'inclusione delle persone lgbt prima dell’entrata in vigore della legge Cirinnà che ha disciplinato le unioni civili a partire dal 20 maggio 2016. Le attuali norme interne nell’83% dei casi tuttavia rispecchiano la legge, mentre nel restante 17% vanno oltre le direttive aziendali. Le politiche di inclusione passano attraverso la fondamentale figura del Diversity Manager, ma questo ruolo, utile per promuovere iniziative di sensibilizzazione ai temi lgbt, è presente nel 42% del campione intervistato; nel 46% delle aziende vengono comunque organizzate sessioni di formazione e sensibilizzazione sui temi relativi all'orientamento sessuale e all'identità di genere. Come detto sopra, il 79% delle aziende ha in cantiere progetti di questo genere, con un ampio ventaglio di iniziative: si va dalla partecipazione al Milano Pride (Vodafone e IBM, presenti al convegno, vi partecipano da tempo), passando per l’espansione dell’Employee Resource Group per le persone lgbt, senza dimenticare ovviamente una continua attività di formazione interna.

A tentare di identificare una modalità che premette di abbattere stereotipi e pregiudizi è una ricerca condotta dalla dottoressa Silvia De Simone, psicologa del lavoro e ricercatrice presso l’Università degli Studi di Cagliari. Mediante il coinvolgimento di quattro cooperative, tutte appartenenti allo stesso consorzio,che forniscono vari servizi nei settori privato e pubblico e impiegano dai 15 ai 110 dipendenti, sono state condotte tredici interviste semi-strutturate con i manager più anziani e un focus group con sette supervisori. Nel corso delle interviste due manager hanno dichiarato la propria omosessualità ai ricercatori, mentre è stato intervistato anche un dipendente transgender.
Le parole utilizzate dagli intervistati hanno rivelato non solo una scarsa familiarità con i temi lgbt, ma principalmente l’inconcepibilità della non-eterosessualità, con i partecipanti che hanno manifestato disagio nel parlare di argomenti legati alla sessualità, ricorrendo talvolta a perifrasi per evitare di utilizzare una terminologia specifica. Addirittura alcuni non conoscevano nemmeno il significato delle parole associate all’acronimo lgbt.
In merito al rapporto con i colleghi di diverso orientamento sessuale, molti intervistati hanno negato di aver lavorato con colleghi lgbt e solo successivamente hanno rilevato di aver scoperto per caso l’omosessualità di alcuni di essi. Prevale dunque la pratica del silenzio, spiegata e giustificata come un segno di rispetto verso i colleghi lgbt e motivato dall’irrilevanza della sessualità sul luogo di lavoro. In realtà, secondo gli stessi lavoratori lgbt, la difficoltà a trattare queste tematiche è dovuta alla paura che alcuni presidenti e supervisori hanno nell’affrontare questi argomenti, e giustificano tale circostanza facendo riferimento al fatto che ci sono dei confini da rispettare rispetto a ciò di cui si può parlare e non si può parlare.
4 commenti