Intervista a Manuel Croce, cacciato di casa perché gay


Manuel Croce è il 40enne palermitano che è stato cacciato di casa dalla sua famiglia in seguito al suo coming out. Fino a pochi mesi fa, viveva in un appartamento di proprietà dei suoi genitori, ma quando la madre ha scoperto la sua omosessualità, lo ha messo alla porta per via del proprio credo religioso: «Ti ho fatto maschio e come tale devi comportarti se ci tieni a stare nella casa di mia proprietà, altrimenti vai via». Lo abbiamo incontrato per conoscere la sua storia.

Ciao Manuel, ti va di raccontarci la tua storia?
Sono nato nel 1980 a Palermo. Gli anni più difficili, perché la gente moriva ammazzata per strada sotto i colpi di pistola o spariva per lupara bianca. Ho vissuto la mia infanzia in un piccolo paese, Monreale. Quando tentavo di inserirmi in un gruppo di bambini per giocare a calcetto mi escludevano : “Sei frocio! Vai a giocare a pallavolo come Mimì Ayuhara”.
All’inizio ero disorientato e non capivo, però intuivo che quella parola era la causa della mia esclusione. Non mi ha mai difeso nessuno. Gli episodi nella mia infanzia si sono ripetuti sotti gli occhi di tutti, anche dei miei vicini che non intervenivano, lasciavano che tutto fosse normale. Le scritte sui cartelli stradali erano evidenti, e anche lì nessuno faceva nulla. Mia madre, per vergogna o pregiudizio, cancellava quelle scritte, ma non indagava. Taceva.
Alle scuole medie sono stato deriso per la mia sessualità; quando mi dicevano frocio facevo finta di non sentire: erano in tanti contro di me ed evitavo lo scontro per non essere picchiato. I miei professori non sono mai intervenuti, e non hanno mai discusso di queste problematiche in classe. Se ti accorgi che neppure gli adulti ti proteggono, allora vai a testa bassa rendendoti pure tu complice del silenzio, quella legge non scritta che è la radice dell’omofobia.
Le superiori le ho attraversate con discrezione, e non si sono verificati episodi eclatanti, solo rumors. Ho provato anche ad approcciare con ragazze, ma sapevo di mentire a me stesso. Quindi le relazioni terminavano nel giro di qualche mese.
La mia identità sessuale l’ho scoperta attorno ai 26 anni, quando delle mie amiche mi hanno messo di fronte al fatto compiuto. Così sono iniziate le mie esperienze omosessuali. Ho cominciato a lavorare come assistente di volo, e sono stato in molte compagnie aeree. In una di queste ho incontrato due comandati omofobi. I colleghi mi consigliavano di non volare con loro, sebbene io sia sempre stato discreto. Purtroppo, mi sono capitati nelle mie turnazioni; così ho ricevuto due rapporti negativi per futili motivi, ed essendo stagionale la compagnia non mi ha rinnovato il contratto. Volevo fare causa, ma il sindacato mi ha palesato le difficoltà di un giudizio per discriminazione sessuale: non c’era una normativa specifica, avrei perso in partenza. Anche qui ho taciuto, perché sapevo di colpire i miei genitori, tradizionalisti e ultracattolici. Non ho mai più volato, mi sentivo sconfitto.
Così ho ricominciato da capo: ho fatto le pulizie, poi il cameriere e in seguito la passione per il bartending. Sono diventato un barman professionista e ho avuto molte soddisfazioni nel mio settore.
Poi il Covid 19. Essendo uno stagionale, gli alberghi hanno ridotto il personale nella prima ondata della pandemia. Non sono riuscito a trovare lavoro. Vivevo in una proprietà di mia madre, e non ho mai chiesto nulla: fra alti e bassi, non avendo un contratto a tempo indeterminato (miraggio d’acqua come nel deserto) riuscivo a farcela.
Poi a marzo di quest’anno ho dovuto chiedere il reddito di cittadinanza, ma era troppo poco, una miseria. Ho stretto la cinghia. Un giorno, sul finire del mese di giugno, l’episodio eclatante: una discussione in famiglia si è trasformata pubblicamente in insulti omofobi. I miei genitori non erano presenti; quando ho riportato l’accaduto, mi sono rivolto a mia madre col cuore in mano. Piangevo, sapevo che il mio outing sarebbe stato per lei l’ammissione delle sue verità nascoste. Anche lei ha pianto, ma poi mi ha detto che lei mi aveva fatto maschio, e che se volevo restare nella casa che lei mi aveva dato in comodato d’uso, non dovevo ricevere mai più nessuno, altrimenti dovevo andare via. Così di sera ho fatto una piccola valigia, a testa bassa ho atteso che facesse buio. Era il 30 giugno, ho percorso la strada del mio quartiere in silenzio.
Non sapevo dove andare. Avevo pochi soldi, il reddito non era sufficiente per affittare nemmeno un bugigattolo.
Ho bussato alle porte di un centro di accoglienza che si occupa di bambini poveri e delle famiglie più bisognose di Ballarò, uno dei quartieri storici di Palermo dove le difficoltà della vita sono all’ordine del giorno. Mi sono integrato nel loro volontariato, e ripagavo il mio vivere gratuitamente nella struttura come potevo: pulivo la struttura, distribuivo le derrate alimentari che i supermercati donavano, e mi nutrivo anche io di ciò che c’era. Sono rimasto tre mesi, poi ho dovuto lasciare. All’improvviso, anche grazie ad Arcigay Palermo, una chiamata da un giornalista de La Repubblica. Aveva sentito della mia storia e voleva raccontarla, anche anonimamente. Quando mi ha detto che avrei potuto aiutare tanti ragazzi e ragazze che come me soffrono le discriminazioni, allora ho deciso di metterci la faccia, altrimenti sarebbe stato poco credibile.
Alla fine dell’articolo ho fatto un appello al Presidente della Camera Roberto Fico, affinché al più presto una legge contro l’omofobia fosse approvata dal nostro Parlamento. Lui ha risposto, subito. Il resto sapete come è andata.
In tantissimi mi hanno aiutato: vestiti, detersivi, scarpe, medicine e una bicicletta. Non avevo nulla per l’inverno. Adesso vivo un una stanza modesta sempre a Ballarò, il mio reddito di cittadinanza si è alzato di poco e così mi sono potuto permettere questo riparo, ma devo comunque rivolgermi sempre alle associazioni per la distribuzione del cibo, perché tra affitto e bollette poi non riesci ad arrivare a fine mese con 300 e passa euro.

Alcuni gruppi politici tendono a sottovalutare la difficoltà che si può avere nel fare coming out in una famiglia omofoba. Tu cosa rispondi?
Molti ragazzi e ragazze mi hanno scritto, quando sono venuti a conoscenza della mia storia. Dal nord al sud dello Stivale. Hanno raccontato le loro vite, le esperienze che avevano vissuto che erano uguali alla mia.
Quando la discriminazione si annida nelle famiglie, proprio quelle che dovrebbero proteggerti, parti svantaggiato in partenza: non puoi essere te stesso, né te la senti di combattere e scendere in piazza con gli altri per i tuoi diritti. Mi hanno chiesto di continuare nella lotta, di dare loro voce. Sottovalutare questo aspetto culturale da parte della nostra politica, come se la storia d’Italia non avesse un passato basato sul machismo e sul patriarcato (vedi il ventennio fascista che mandava in esilio gli omossessuali, o il Bell’Antonio che ci racconta come la mancata virilità di un uomo possa essere oggetto di baratto con il rispetto della società), è il più grave errore verso la civiltà, e ci mette in classifica vicino ai quei paesi dove i diritti per la comunità LGBT sono inesistenti.
Ad esempio, in quasi tutti i paesi del G7 è possibile adottare figli, tranne in Giappone e Italia. Questo perché durante la riflessione sull’approvazione della Cirinnà, i nostri politici hanno eliminato la step child adoption. Non siamo uguali agli altri paesi europei, eppure da destra e sinistra si continua a chiedere alla comunità Europea fondi e sostegno, ma quando l’Europa ci domanda più diritti, i politici deviano il dibattito sui migranti, altro tema scottante di cui gli altri paesi dell’Unione si lavano le mani. La riflessione deve esserci per un progresso della Nazione, nessun Paese membro può dichiararsi europeo se non c’è un bilanciamento dei diritti individuali.

Alcune organizzazioni integraliste sostengono che il genitore debba poter imporre la sua omofobia ai figli senza che la scuola possa educarli al rispetto. A tuo avviso, sarebbe cambiato qualcosa nella tua vita se a scuola avessi incontrato un ambiente più inclusivo?
L’omofobia non si può imporre, si inculca. È sottile la differenza, ma sostanziale. Se dici a tuo figlio che deve essere omofobo, molto probabilmente non comprenderà appieno. Ma se un genitore incide con l’esempio, con le abitudini quotidiane a tavola, rivolgendosi verso la tv con epiteti forti quando vede un servizio alla tv sul Pride, ecco allora che l’esempio diventa replica, trasforma il DNA del ragazzo che deve diventare uomo, lo stesso vale per le ragazze. È vero, l’educazione si insegna a tavola.

Perché chiedi una legge contro l'omofobia?
Oggi più che mai bisogna alzarsi assieme per i diritti, affinché la legge Zan venga subito approvata. È una norma che estende la legge Mancino, ovvero punisce chi ci colpisce o insulta con l’aggravante della discriminazione sessuale. Ma è anche altro: istituisce il 17 dicembre la giornata nazionale contro la omotransobia e la Misoginia, protegge chi soffre di handicap e inserisce nelle scuole l’educazione alla diversità, che non è come asserisce Giorgia Meloni, l’imposizione della cultura gay. Anche perché, se un giorno i figli del primo esponete di Fratelli d’Italia dovesse ritrovarsi nella situazione di mia madre, vorrei che i suoi figli fossero uguali e tutelati. Sempre.

C'è qualcos'altro che vorresti dirci?
Il mio cuore è una spina. Ogni volta che tento di raccontare il passato per eliminarlo dalle bruttezze vissute, mi pungo. Mi faccio male. Eppure so che alla cima dello stelo i petali di questo fiore stanno per sbocciare. Non sarò io a raccogliere questa rosa, ma la prossima generazione. Che tutti i ragazzi e le ragazze trovino la forza che a me è mancata per tanti anni. Non c’è mai un tempo per dire di essere voi stessi, di dichiarare la vostra omosessualità ai genitori. Osate. Disubbidite civilmente. C’è un leone che ruggisce dentro di voi; attende solo l’eco del coraggio.
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