La Corte UE è tornata a tutelare l’autodeterminazione di genere

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che il diritto alla rettifica dei dati personali deve estendersi anche all’identità di genere e che non può essere subordinato a condizioni arbitrarie o medicalizzanti.
La decisione è stata messa in riferimento al caso di un uomo trans iraniano, rifugiato in Ungheria dal 2014, il cui genere anagrafico era rimasto invariato nei registri pubblici sulla base delle leggi anti-trans volute dal governo Orban. In piena pandemia, il presidente ungherese aveva infatti usato lo stato d’emergenza per vietare la possibilità di modificare legalmente il genere nei documenti ufficiali. Inoltre al rifugiato era stato contestata la mancata presentazione di prove mediche di un intervento chirurgico.
Ma la Corte è stata chiara nel definire che "l’articolo 16 del regolamento 2016/679 deve essere interpretato nel senso che […] uno Stato membro non può in alcun caso subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio di tale diritto alla produzione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale". Perché se il registro ha lo scopo di identificare correttamente le persone che vi sono iscritte, allora il dato sul genere deve riflettere l’identità vissuta, non quella assegnata alla nascita. Lo sancisce l’articolo 16 che impone alle autorità l'obbligo di rettificare tempestivamente ciò che non corrisponde più al vero.
La Corte chiarisce, tuttavia, ha riconosciuto possa essere legittimo chiedere prove, purché ragionevoli e proporzionate. Quindi si può chiedere un certificato medico, ma non si può pretendere una castrazione forzata.