Coghe esulta per la chiusura di Freeda, da lui definita "festival dell'ideologia woke"

Jacopo Coghe parrebbe molto felice davanti a 63 persone che perderanno il lavoro, vantandosi di come il suo business basato sulla promozione dell'intolleranza stia continuando a garantirgli forti introiti economici.

Quindi sarebbe il profitto economico a sancire che omofobia, sessismo e violazione dei diritti umani sarebbero "ciò che davvero conta"? E chi lo avrebbe deciso che Jacopo Coghe andrebbe ritenuto il giudice supremo incaricato di decidere cosa sia giusto o sbagliato?
Il fatto che Freeda non abbia amici al governo e non ricava fondi neri da Mosca non non pare motivo di critica, ma un merito. E poi, su quali basi li accusa di "propaganda"? Li odia perché loro si battevano per far vivere meglio le persone anziché fare come lui, che chiede soldi dietro promessa di ottenere leggi che impongano l'obbligo di parlare al maschile delle donne trans solo per fare loro del male?
Freeda è nata all’inizio del 2017, proponendosi uno dei primi progetti editoriali italiani a pubblicare tutti i propri contenuti direttamente sui social, senza appoggiarsi ad un proprio sito. Parlavano di affermazione e emancipazione femminile, spesso ricorrendo a citazioni di donne celebri e illustrazioni.
I risultati furono da subito impressionanti: in sei mesi la pagina Facebook di Freeda raggiunse il milione di follower (ad oggi l'organizzazione forzanovista di Jacopo Coghe ne ha solo 156mila). In un anno contava 60 dipendenti in Italia, 20 in Spagna e un milione di euro di fatturato.
In otto anni le cose sono cambiate. Le fake-news vengono più della verità e l'odio viene incoraggiato sui social di Elon Musk. Nonostante i suoi milioni di follower sui social, l’azienda sarebbe andata in crisi a causa della perdita di un grosso cliente e il fallimento di un altro cliente. Due fatti che non darebbero dare ragione a Coghe e al suo insinuare che nessuno sia più interessato ad ascoltare chi pensa che le donne abbiano dei diritti.
A colpirli è stata anche la pandemia: «I settori principali dei nostri branded content erano lusso e beauty -spiegano- ma tutti i negozi erano chiusi e fare pubblicità aveva molto meno senso. Un’azienda che ha alle spalle trenta o quarant’anni magari ha una serie di capacità finanziarie per supplire a questo problema, ma per una nata da poco non è stato esattamente facile».