Paolo Valerio: «Stereotipi e pregiudizi hanno a che vedere con la non conoscenza. Giusto insegnare il rispetto sin dalla scuola dell’infanzia»

È La Stampa di Torno a proporci un'interessante intervista a Paolo Valerio, clinico della Federico II, in cui si sfatano molti miti della propaganda integralista.
Se ad esempio Toni Brandi viene invitato dal governo per sostenere che sia fondamentale impedire che i bambini possano conoscere la diversità prima di aver maturato gravi pregiudizi, il professore racconta: «Stereotipi e pregiudizi hanno a che vedere con la non conoscenza. Lo stereotipo è in termini concreti “I napoletani sono un po’ imbroglioni e ladri”. Il pregiudizio significa che, se incontro un napoletano, non penso più alla persona che sto incontrando ma alla categoria descritta dallo stereotipo e da questo viene lo stigma, ovvero la de-umanizzazione. Questo è quello che è accaduto con gli ebrei, che sono stati deumanizzati, per cui anche persone tedesche sensibili, sono state condizionate nel loro pensiero. La conoscenza è quindi il primo elemento per superare il pregiudizio e lo stigma. Per poter individuare nella cultura della differenza un valore e non un limite. Educare i bambini ad una cultura che vede le differenze, non solo di genere, ma anche religiose, etniche e culturali, come una risorsa. È giusto cominciare nella scuola dell’infanzia a promuovere una cultura che aiuti a riconoscere e rispettare le differenze di genere, a rispettare l’altro diverso da se, certamente dosando l’informazione a seconda del momento evolutivo del bambino o della bambina».
Ovviamente Valerio non da dubbi riguardo all'assurdità di chi sostiene che l'accettazione della diversità possa condizionare lo sviluppo dei bambini: «Quando ero io bambino, tanti anni fa, diverso era, per esempio, il bambino che aveva genitori separati o divorziati. Oggi, probabilmente, entrando in una classe, i bambini che hanno una famiglia strutturata in senso tradizionale sono una minoranza e questo non costituisce più uno stigma. Può essere quindi utile aprire all’informazione, un’informazione giusta, sapendo che l’orientamento sessuale e l’identità di genere sono processi profondi che hanno a che vedere con i piani di vita ed a 6-7 anni sono costrutti già abbastanza consolidati. Non può essere certo una maestra che introduce questi concetti in una classe a determinare l’orientamento del bambino.

Sul fronte integralista abbiamo poi i vari Adinolfi, ossia persone pronte a spergiurare che i diritti civili e la pari dignità siano «falsi miti di progresso» da attribuire ad una società colpevole di non imporre una presunta morale cristiana alla popolazione attraverso la soppressione di qualunque forma di libertà individuale. Non la pensa così il professore, il quale spiega che «la diversità sessuale è un fenomeno ubiquitario e universale, trasversale alle culture ed alla storia: se pensiamo alla cultura indiana ricordiamo gli Hijras, una casta “fuori casta”, a quella italiana abbiamo i “femminielli” napoletani descritti già nel ’500 da Giovan Battista Della Porta, se pensiamo alla cultura Tailandese abbiamo i Kathoey e Ladyboys, e poi i Rae Rae della Polinesia ed i Muxe del Messico. Insomma il fenomeno c’è sempre stato. La morale giudaico - cristiana ha poi etichettato tutto questo come “peccato”. Interessante la storia: la prima volta in cui le relazioni same sex vengono depenalizzate è la Rivoluzione francese, per cui il successivo codice napoleonico non condanna più queste relazioni».
A tal riguardo, Valerio aggiunge anche: «Ricordiamo che in precedenza tali comportamenti venivano puniti anche con il rogo: la stessa parola “finocchio” deriva dai fasci di finocchio che venivano buttati nei roghi dei sodomiti per non far sentire l’odore di carne bruciata. Quando ci fu l’unità d’Italia vi erano alcune norme che penalizzavano i comportamenti omosessuali, norme che venivano applicate prevalentemente da Torino a Roma ma non da Roma in giù, dove vi era una cultura più aperta. Durante il fascismo ci si chiese se fossero necessarie norme restrittive su questi comportamenti, fu poi deciso che il popolo italiano fosse così virile da non richiedere tali leggi, ancora confondendo identità di genere e orientamento sessuale. Perché quello che viene stigmatizzata principalmente è la femminilizzazione del maschio, maschio che viene penetrato, sodomizzato, non è ammissibile in una società patriarcale».

Insomma, anche in questo caso saremmo dinnanzi a motivazioni prive di qualunque logica e dettate solo da paure irrazionali. Eppure l'ultimo aspetto che non dev'essere trascurato è come tutto ciò produca dolore e come i vari Adinolfi e Brandi siano causa di malessere per le loro vittime. Il professore racconta infatti di aver conosciuta tanta sofferenza a causa della mancata accettazione da parte della società: «Ricordo di un bambino, tornato dalle vacanze che il papà aveva portato con sé al lavoro in cantiere, per farlo diventare più “maschio”. Il bambino era triste perché non era potuto stare con la mamma e fare quello che voleva. Penso ad un episodio che mi ha raccontato un amico di una persona, transgender F to M, di cui un amico sta scrivendo un libro che, negli anni ’50, si fece tagliare le gambe da un treno, per poter indossare i pantaloni. Penso a tutti gli episodi di bullismo omofobico, alle esperienze di una educativa sociale di Secondigliano, dove alcuni bambini sono stati etichettati come “femmenella” o “ricchione”. Tanta sofferenza c’è nel momento in cui una tua istanza viene vista solo come vizio, malattia e non come possibilità di declinare la tua esistenza aiutandoti ad autodeterminarti».


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