Livia Adinolfi, figlia di Mario Adinolfi e candidata del Popolo della famiglia, sino allo scorso anno era redattrice del sito lgbt-friendly Bossy


Nel 2016 e nel 2017, il sito Bossy si è aggiudicato un premio come "miglior sito lgbt" ai Macchianera Internet Awards. Ha distribuito i suoi volantini al Gay Pride di Milano e si è sempre dichiarato gay-friendly.
È questo il motivo per cui ha destato molto scalpore il fatto che tra i loro redattori figurasse Livia Adinolfi, la figlia che Mario Adinolfi ha avuto che oggi risulta candidata nel Popolo della famiglia insieme a papà e alla seconda moglie di papà (ossia tre stipendi pagati dalla collettività a fronte di una becera campagna d'odio contro gay ed altre minoranze quale redditizia attività di famiglia).
Se oggi gli articoli formati da Livia Adinolfi risultano accreditati a nome della redazione, basta effettuare una ricerca storica per poter facilmente appurare che non si trattasse di omonimia e che l'autrice degli articolo fosse proprio la stessa Adinolfi che oggi si è candidata con il peggior partito omotransofobico d'Italia. A calce dei suoi scritti, questa era l'accredito originale:



Oggi candidata con Pirozzi alle Regionali del Lazio, dice di voler compattare la fantomatica «ideologia gender» o per sostenere che «i governi devono fare quello che fanno da sempre i missionari cattolici ed aiutarli a casa loro».
Speriamo perlomeno che non intenda chiedere a Salvini di comportarsi come quei missionari che vedevano come priorità un invito a non usare i preservativi con nonostante l'altro rischio di contagio attraverso il loro sostenere che chi fa sesso sicuro andrà all'Inferno. Già suo padre non perde occasione per vantarsi di aver fatto sesso bareback con tutte le sue mogli.

In virtù di come la 21enne Livia Adinolfi risultasse redattrice di Bossy nel 2017, è tra le persone che in quell'anno furono premiate per l'impegno contro la discriminazione promossa da sua padre. Ora ha cambiato casacca, forse ingolosita dall'odore di stipendi pubblici che potrebbero venirle in tasca senza dover faticare come quei gay che vanno in fabbrica mentre suo padre li insulta per profitto.
E non meno assurdo è come Mario Adinolfi si sia dimenticati di dire ai suoi proseliti che sua figlia scriveva per una testata di quella fantomatica «lobby gay» che lui giura esista e sia rappresentata da qualunque testata osi promuovere il rispetto e i diritti umani contro il suo sostenere che lo stato debba conferire un valore giuridico alle azioni compiute dal suo pene.
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