Poliziotto sospeso per aver indossato abiti femminili su un sito di incontri. Il Tar respinge il ricorso


Oltre un anno fa, un agente di polizia della questura di Milano aveva deciso di aprire un profilo personale su un noto sito di incontro online. Il suo nickname conteneva il suffisso "trans" e le fotografie -visibili solo a chi aveva ottenuto la sua autorizzazione- lo mostravano in abiti femminili e con il viso truccato.
La voce è giunta all'orecchio del suo superiore, il quale ha deciso di incaricare un altro poliziotto di iscriversi sotto mentite spoglie al sito per cercare di ottene delle prove. Raggiunto l'obiettivo, l'uomo è stato sottoposto ad un provvedimento disciplinare e, nell'ottobre del 2011, è stato punito con un mese di sospensione dal servizio.
L'agente ha così deciso di far ricorso al Tar della Lombardia. Il suo avvocato ha sottolineato la modalità inusuale con cui il suo superiore ha cercato le prove, affermando anche che: «sanzionare il comportamento del ricorrente, per di più per condotte poste in essere nell'ambito della sua vita privata, dimostra senza alcun dubbio uno specifico intento di mortificarlo in ragione del suo orientamento sessuale, in una logica di chiara matrice omofobica che considera intollerabile l'omosessualità nell'amministrazione della pubblica sicurezza».
Del tutto inaspettata è la sentenza giunta in questi giorni. I giudici hanno deciso di respingere il ricorso, sostenendo che «È fuorviante la valorizzazione di profili attinenti a una presunta discriminazione sessuale, che la difesa del ricorrente ha sagacemente prospettato per eludere l'autentica ragione della sanzione», ossia «una condotta in contrasto con gli obblighi di decoro imposti dall'appartenenza alla polizia di Stato, soprattutto in ragione dell'oggettiva e potenziale diffusione di tali manifestazioni» su Internet. Nella sentenza, inoltre, si fa riferimento ad un presunto rischio sicurezza: «Si pensi a possibili attività ricattatorie per estorcere notizie o informazioni di servizio esercitabili nei confronti dell'agente da parte di chi fosse entrato in possesso di quel materiale».
Forse, però, verrebbe da obiettare che la ricattabilità è direttamente proporzionale allo spirito omofobo che vige sul posto di lavoro. Se a fronte di immagini personali non si temessero ripercussioni lavorative, che ragione ci potrebbe mai essere per essere pronti a tutto -così come viene ipotizzato- pur di evitare che possano finire nelle mani dei propri superiori?

Via: Repubblica.it
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