C'è chi predica bene e razzola male...


Google ha esposto la bandiera rainbow sulla sua home page in occasione delle olimpiadi di Sochi, ha festeggiato per l'approvazione dei matrimoni gay negli Stati Uniti, offre uguali diritti ai suoi dipendenti gay... insomma, appare l'emblema di quella che generalmente viene definita una azienda gay friendly. Eppure è proprio Google a gestire Ad-Sense, il più famoso circuito pubblicitario di Internet, ed è in quel contesto che qualcosa inizia a non tornare più.
In Italia i siti gay che non sono stati buttati fuori da quel circuito vanno cercati con il lanternino (diversa è la situazione all'estero) e personalmente ho provato quell'esperienza non per tanto per una qualche immagine riservata ai soli maggiorenni, ma perché degli uomini senza maglietta erano reputati troppo provocatori per essere adatti al pubblico generalista. Sinceramente non capisco quale sia la differenza rispetto alle ragazze dalla maglietta bagnata pubblicate da Libero, ma in fin dei conti il servizio è loro e decidono loro.
Il vero problema è che, anche a segnalarglieli, Google non ha alcun problema a pubblicare la sua pubblicità sui siti omofobi. Ad esempio i loro banner girano tranquillamente su Tempi, su Pontifex Roma e persino sul neonato Ex-homovox (il quale si è anche preoccupato di abilitare le categorie sensibili, disabilitate di default, che prevedono materiale per soli adulti e il gioco d'azzardo). Benché il regolamento vieti la promozione di «intolleranza razziale o la diffamazione di individui, gruppi o organizzazioni», nei confronti di quegli articoli non si è evidentemente ritenuto di dover far nulla. In altre parole, pur condannando a parole l'omofobia, si finisce con il finanziarla.
Se poi consideriamo che a fronte del finanziamento del fronte anti-gay corrisponde un'esclusione di chi lavora per contrastare quelle tesi, vien da sé che l'azienda finisce con l'aver di fatto preso posizione.

Un discorso simile si può fare anche per Facebook: partecipa ai gay pride, introduce icone rainbow ma poi continua a censurare le immagini di baci fra uomini e difende chi lancia minacce di morte omofobiche. E nonostante si sappia che alcuni ragazzi sono finiti con il togliersi la vita a causa delle frasi pubblicate su quelle pagine, nulla viene fatto per fermare un movimento omofobo violento che vede sempre gli stessi nomi coinvolti...

Ecco perché, data la vicinanza della Giornata Internazionale contro l'Omofobia, vale la pena dedicare una riflessione anche alla necessità di chiedere fatti. Le parole sono sicuramente importanti -è vero- ma non possono rimanere a mezz'aria a fronte di interessi economici che finiscono con il prevalere sulla dignità delle persone.
Le possibili azioni sono tante: dal prendere posizione con Google e Facebook, al chiedere conto alle le singole aziende del perché il loro nome compaia su certe pagine. In fondo il caso Barilla ci ha insegnato che l'unione può fare paura e che la rassegnazione non è l'unica via percorribile.
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